Credo nel sole, le nuvole, il vento, la neve,
la stagione improvvisa che torna,
la luna nel pozzo e nei conti che tornano.
Da qui ogni pena è lontana, stanotte,
lo scontento, il dovere, da qui ora tutto è lontano.
Credo in questa terra.
E bisogna amarla questa terra. Bisogna per intero prenderla com’è.
Come un dono, un’ossessione. Perché dal Sud si fugge,
al Sud si ritorna per la vita intera. Come al grembo. Al luogo del delitto.
Al piacere della prima volta. Al dispiacere per qualcuno.
Credo nell’illusione delle parole, ma credo che un canto
valga più di tutti i libri che leggeremo.
Credo che la poesia viva dovunque, che sia lei a cercarci,
siete voi la poesia, senza saperlo,
sono le vostre teste calde, i vostri salti sino all’alba,
le vostre mani strette nei sogni dell’una e dell’altro.
Credo nelle vostra intelligenza, nella vostra sfrontatezza,
pretendete il cielo da un canto,
pretendete il cielo da chi vi è accanto.
Credo in chi si commuove per le sciocchezze
e ride senza motivo come un idiota nei campi.
Credo nella semplicità e la invidio.
Nella semplicità e la invidio.
Credo in chi non ho mai veduto
eppure conosco da sempre,
in chi alla fatica sfiorisce ma intanto cammina.
Credo in chi ascolta, nei vecchi che svelano siccità e abbondanza
con il fiuto dei cani.
E soprattutto credo nel giorno
in cui nelle prime file delle autorità
siederanno i bambini.

Pierluigi Mele

Testo letto nel Concertone de La Notte della Taranta, 22 agosto 2009
(estratto dal romanzo “Da Qui Tutto È Lontano, Lupo Editore, 2009)

 

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Pierluigi Mele, Da qui tutto è lontano (Lupo Editore 2009, pp. 224, con audio-libro cd).

C’è voluto del tempo. Quindici anni a mettere il punto alla fine. C’è voluto del gioco. Quel gioco che spinge a stupirsi e dannarsi per ciò che verrà oppure no. Il gioco libero. I personaggi si sono perduti e così ritrovati lungo il cammino. Loro a dettare il passo. Loro ad osare. Perché quei personaggi sono forme di una sola figura. Loro a scoprire cose che credevo dimenticate. C’è voluta paura dei propri fantasmi, sino a guardarli con occhi sereni. C’è voluto tutto l’amore per la musica, i colori, l’infanzia, il sorriso. C’è voluto qualcuno accanto che ci credesse davvero. C’è voluto il tempo che occorre. Anche quello per accettare i rifiuti, tanti. Anche questi sono serviti. Il libro non sviluppa un’unica trama, ne miscela diverse, di storie. Fa la spola fra terra e visione, desiderio e reale, amore e memoria, sarcasmo e dolcezza. Si serve di solitarie, estreme figure per dire del tempo, di questo nostro tempo. Questo, orfano di rivolta, dissenso, utopia. Questo, dove i simboli sono bagattelle di sagra. Si serve del sud come perdita, sogno, chimera. Solo il luogo ha un nome concreto, Torre S. Emiliano. Ma è un luogo di fabula. Un luogo di dentro. Si serve di odori perché le parole da sole non sanno né possono dire. Si serve del potere, innanzitutto, ma come metafora di un certo destino. Come filo rosso che stringe il racconto. Non è in poesia, il libro, ma se ne serve lisca per lisca. Non è propriamente romanzo, ma si nutre di letteratura che è vita. Neppure teatro, ma ne segue il fraseggio. Per annodare man mano ogni filo, e alla fine tutto torna dov’era.
Mi avevano chiesto un intervento e non so come stilarlo altrimenti. Mi avevano detto “sei libero, scrivi ciò che ti pare”. Posso dire che parlo di un sogno, nel libro, e che ne aspetto il distacco per saperne di più. Aspetto che si perda lontano come un aquilone sfuggito di mano. Aspetto che qualcuno, più in là, lo raccolga. E allora estraggo un passo dal libro che offre il senso di tutto. Quello che ora dedico a voi. «Credo nel sole, le nuvole, il vento, la neve, la stagione improvvisa che torna, la luna nel pozzo e nei conti che tornano. Credo nei colori, e con questo mio nero li stringo tutti. Credo nell’illusione delle parole, ma credo che un canto valga più di tutti i libri che leggeremo. Credo che la poesia viva dovunque, che sia lei a cercarci, che si tuffi nei versi come ultima spiaggia. Credo in chi si commuove per le sciocchezze e ride senza motivo come un idiota nei campi. Credo nella semplicità e la invidio. Credo in chi non ho mai veduto eppure conosco da sempre, in chi alla fatica sfiorisce ma intanto cammina. Credo in chi ascolta, nei vecchi che svelano siccità e abbondanza con il fiuto dei cani. E soprattutto, credo nel giorno in cui nelle prime file delle autorità siederanno i bambini».

Guarda la presentazione del libro

contatta l'autore: lelune@libero.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ritratti di Pierluigi Mele

 

 

POESIE

 

TRAMONTALBA

Sud. Come termometri sigarette
al carbone fendevano la bocca
d’un nonno officiante di Gramsci
nella piazza, quando il tramonto
ravviava il monotono rosario
al passaggio delle devote. è questa
la mia prima immagine del comunismo.
Con quello mi raccontavano l’offesa
del tabacco malpagato, la vanga – la storia:
a caso prendi due uomini dal mazzo,
chi non sorride è sempre il boia.
Poi non so, si sparigliano le carte
e soffia falò nero di bandiere.

Maggio, afa di rose nel giardino.
Fuori i gatti salpavano da sotto
le automobili per l’umido mattino,
già squillando nell’azzurro le urla
sincopate del venditore d’angurie
come da un minareto il muezzin di Maometto.
Altra sorte quella d’un cane
a cui la legge dei padri negò i dadi:
sfortunato al gioco del vero, dalla malerba
venivo a darti fuga, ma randagio
è il sangue di chi dispera
libertà con la catena al collo. Certo
insieme avremmo annottato
a seguire il fiuto bavoso della lumaca
sui cardi, ignorando dove l’alba ci avrebbe
scovato, o che l’infanzia fosse il solo
mestiere di tutta una vita.

Ricordo una fontana di crocicchio
dove zingari intrecciavano coi giunchi e salici
i canestri. Da lì tornavo con brocche
d’acqua tersa per la casa senz’acqua
domestica. E nel rione zitelle a turno
fare la ronda al cielo davanti agli usci:
per ogni stella, una promessa di matrimonio
in soffice cantilena notturna
sotto la bianca scodella della luna.
Tutt’intorno bruciavano le stoppie
all’ombra degli ulivi, torsi
d’un impero di baroni e grilli.
E il mare: “Chi conosce il Sud sa piangere la morte”.

Sì, tutto è stato digerito.
Come la terra dove nascere
e vivere a rate. Là sono i miei risvegli
innevati sulla strasse a tornante d’una San Gallo
frontiera di visioni migrare
tra gli abeti, abbracciare la sera
scambiandola per madre – quando lepri
spuntavano alla tristezza come torce.
Inatteso il favonio arrossava poi
di follia composta le montagne, i volti,
le strade – in Svizzera
l’ordine è solo un impiego della natura,
e festante trillava il merlo dal torrente
ovunque lasciando tracce del suo canto,
come il nostro sguardo sulle cose.
Allo stesso modo avrei invidiato
nella provincia da cui scrivo
muovere la rondine i primi richiami
utili alla vita per imballare la scuola
in un pallone, io vissuto nella lingua,
i colori, i giochi che non so, straniero
a me stesso come in grembo.

Sì, hanno gli uccelli tutte le chiavi
del nostro tempo; e come loro
torneremo un giorno alla terra delle zolle,
perché c’è un’età oltre gli atlanti e le stagioni
che resta, anche se noi andiamo.
Un tempo, credo, di tramontalba.

 

Pierluigi Mele

da “Tramontalba”, Edizioni Moscara, 2003

 

 

Fabrizio

Vedremo altri soli
domani, o giù
nella stiva sono questi
i migliori. Ditemi
ora chi scoprire
chi ignorare di nuovo,
quale faccia mettere
in fila alle note,
quale ascia interrare
quale freccia nell’aria.

La signora naviga,
ormeggia alla baia
di cose sicure,
una mano alla mano
di ogni paura.
E riprende il viaggio
tra il fondo e la cima
perché l’uomo a bordo
è felice di averla cantata.

Solo un caffè chiedo
signora, ho nicotina
a farne di strada,
a svuotare il tempo
e riempirlo d’inchiostro.
Stasera discuto
col buio che tira,
la stella che manca
alla mia collezione.
Avrò ancora caffè
dimmi signora,
da notti non dormo
e sono certo
di averti sognata.
Sei la stessa dei sogni,
solo un occhio è più scuro,
quello che ora guarda
la terra affondare.

Un ottico, una lampadina
va bene, un cerino
per vedere ai miei piedi.
Ci sono cicche e non sono le mie,
qualcun altro è venuto,
i minori che ho intonato
mi dici, sono i primi
a viaggiare su questa nave.
Ti chiamo signora
e mi piaci così.
Mi hai detto dammi del tu
senza piegare la testa,
perciò ti accordo signora
per chi non s’inchina
e per me, libertà,
e anarchia signorina.

Un calcio dopo l’altro
a vedere il cuore più alto
volare davvero.
L’ho pulito dal fango
a contare i calci
che ha preso
e al cielo l’ho reso
perché non cambiasse.

Da un pettirosso
ho avuto i miei figli
dai vicoli i fiori
dai monti prigione
ma è stato fragile
signora tornare
e rivederti com’eri.
Ancora un caffè,
voglio sapere
che fanno le acciughe
e che salma è domenica.
Lo suonerò forse
in dialetto, belìn
di un potere,
rifarti il trucco non basta.

Un oceano,
un altro signora,
verrà Nina
a issare le vele. 
Le altre ridono
su questa nave,
le tante cantate
sono vere signore
come Nancy
e ora forse la vita.

Ho freddo, ho sbagliato
stagione a partire,
la pietà ha aperto
sul petto una falla,
un papavero
e non posso vederlo,
ti credevo guarito
invece fai sangue.
Andiamo signora,
se sogno vuol dire
che ho primavera.
La morte è una rosa,
io m’innamoro di tutto.

Pierluigi Mele, inedito

 

 

 

 

 

 

SPETTACOLI

 

 

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Da Finibusterrae Spettacolo teatrale - frame

Del Sud, l’attesa è vizio e virtù.
Il Sud è un’auto che sembra sprofondare ma resta sul ciglio del burrone, in bilico tra sole e schianto, me ne fotto e pianto.
Aspetta.
Il posto di lavoro, lo stato, il padrino, il terno al lotto.
È umano.
È la debolezza su cui poggia l’arroganza del potere.
La sua mediocrità la nostra.
Quella di chi stende il tappeto rosso ad ogni imbonitore di regime, musicante, velina, intellettuale da cazzeggio, agli eventi, alle vetrine, alle sagre senza amore, ai trallalleru senza notte, senza core, alle svendite in diretta, ai premi Barocco Salento Valentino.
Premieranno anche Riina con l’olio della poesia.
Venghino, signori, venghino!
Io mi scorno di questo marketing, di questa marchetta, del sud che non sono, del sud che non siamo, di chi a bocca aperta aspetta un sud che non c’è.

di Pierluigi Mele

 

 

 

 

 

 

Pierluigi Mele, nato in Svizzera nel 1967, vive nella provincia di Lecce. Si occupa di formazione e pedagogia del teatro. Mette in scena spettacoli in accordo tra racconto, musica e danza. Ha aperto le ultime quattro edizioni de La Notte della Taranta. Ha pubblicato i libri di poesia Lavare i fuochi (1995), Tramontalba (2003). Suoi versi sono in I mestieri si rubano con gli occhi (2002), Lungomare (2008), nel calendario Salento (2009) e in diverse antologie nazionali. Premio poesia “Dario Bellezza” 1999. Da qui tutto è lontano (Lupo Editore, 2009) è il suo primo romanzo.

 

 

 

 

 

 

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